La voliera
Quando eravamo bambini, all’uscita della scuola mio padre passava dal forno per prendere il pane e ci comprava un sacchetto di brioscine con la giggiulena. Ce n’erano otto in ogni busta, tonde e panciute come quelle dei gelatai oppure affusolate come dei piccoli panini. Lui prendeva quelle lunghe, per farcirle, ma a me piacevano semplici, senza niente sopra se non il profumo della giggiulena tostata. Apriva la busta mentre eravamo ancora in macchina e io annusavo dentro, poi ne prendevamo una ciascuno da mangiare prima di arrivare a casa, mentre erano ancora un po’ tiepide. Quando poi finivano, nella busta rimanevano tutti i semini che si erano staccati dalla superficie delle brioscine. Allora mio padre passava una mano sulla plastica in modo che la busta diventasse liscia liscia e i semi si raccogliessero tutti in un angolo. Poi tirava su una punta del sacchetto con due dita e lasciava che una fila di semini cadesse giù lungo la giuntura e finisse nel cavo della sua mano. Infine, andavamo sul balcone, lui apriva il pugno chiuso alzando il mignolo e lasciava scivolare i semini sull’angolo della ringhiera di ferro, formando una collinetta di mangime per i passerotti che si trovavano a volare lì vicino. Questa operazione aveva luogo più o meno due volte a settimana, e ogni volta io restavo incantata da quel gesto delicato che prendeva forma dalle mani grosse e scure di mio padre, mi sembrava una magia antica che quel gigante si prendesse cura di creature così innocenti come i passerotti.
Mio padre si sta accorciando.
Credo sia per l’età, gli anni si posano sulle sue spalle e poco a
poco lo schiacciano con il loro peso. Rimpicciolendosi, diventa anche
lui innocente e bisognoso di cure. Solo le sue mani restano sempre
grandi e scure.
L’ultima volta che sono andata a trovarlo, aveva montato sulla terrazza una voliera. Una gabbia enorme, con le sbarre di ferro, sgraziate, e il fondo coperto di carta da fruttivendoli. Alla base, aveva montato delle piccole ruote per portarla al riparo nelle giornate troppo fredde e ventose. Appollaiati su un grosso ramo ancora fresco per la recente potatura, la voliera ospitava tre canarini, due gialli e uno arancio vivo come corallo. Il concerto di cinguettii mi ha riportata a quando passavano le domeniche da mia nonna, che sempre aveva in casa canarini, oltre ad animali di ogni genere e stazza, abbandonati sulla strada al limitare della campagna, ai quali dava riparo per pietà. I gorgheggi squillanti mi diedero conferma di un fatto che mi sembrava sempre più chiaro: mio padre, invecchiando, si faceva sempre più simile a sua madre, sia nei modi di fare e di dire, nelle espressioni del viso e ora anche nella mania dei canarini. Sceglieva come cibo per loro le verdure in base al colore, per rendere i piumaggi più brillanti e io ho pensato, con rancore e anche invidia, che queste cure che aveva per gli uccellini, non le aveva avute per noi.
Qualche tempo fa ho sentito mio
padre al telefono. La sua voce era più bassa, rauca, come una
macchia di umidità sul soffitto, che diventa più scura dopo una
nottata di pioggia. Uno dei canarini era morto e un altro stava sul
suo ramo di limone torvo e gonfio. Immobile e senza una zampa.
La mattina dopo ho ricevuto la
telefonata di mia madre. I canarini erano morti tutti e tre,
probabilmente un falchetto, di quelli che vedevamo ogni tanto
aggirarsi sul giardino di fronte casa, aveva infilato il becco tra le
sbarre della gabbia e fatto razzia. La testa del canarino corallo era
precipitata sul pavimento della terrazza, rotolando fin sotto la
porta della lavanderia, mentre il suo corpo decapitato giaceva
esanime sul fondo di carta della gabbia, in mezzo al sangue e al
guano, tra le bucce del becchime. La scena era raccapricciante, ma in
mio padre il disgusto era impastato di tristezza e incredulità, e
mentre mia madre mi raccontava i dettagli, io ho pensato che tutto
questo lo avrebbe fatto accorciare, prosciugato dall’interno come una
pesca dimenticata per troppi giorni dentro una fruttiera. A
quest’ora, doveva essere diventato più basso di me, e mi sono
chiesta cosa avrei provato nell’incontrarlo e constatare di aver
perso il momento in cui i nostri occhi si sarebbero trovati alla
stessa identica altezza. Avrei dovuto prendere atto dello scambio di
ruoli senza che ci fosse stato un passaggio di testimone, un punto
esatto all’intersezione tra le curve della sua e della mia vita.
Pochi mesi fa ho preso una breve
pausa primaverile dal lavoro e sono andata a trovare i miei genitori
per qualche giorno. In un angolo della terrazza c’è ancora la
voliera, a prendere ruggine e scirocco, di fianco alla cassettiera
con gli attrezzi da giardinaggio. Mio padre si è accorciato, ma non
così tanto da dover guardarmi dal basso in su. Ancora un paio di
centimetri ci separano dall’essere allineati. Con la mano, sempre
grande e sempre scura, mi ha indicato il vaso dove cresce il
ciliegio, un alberello che in vita sua ha prodotto soltanto fiori,
dolcissimi e sterili. Mi sono avvicinata a guardare meglio. Ai piedi
dell’alberello spuntavano un ciuffo di carote e una piantina di
sedano. «Li ho visti la settimana scorsa, ho aspettato che arrivassi
tu per raccoglierli. Li mangi?»
Probabilmente, il vento aveva
soffiato via quei semini dalla mangiatoia nella voliera, e li aveva
lasciati cadere in mezzo alla terra.
Ho fatto di sì con la testa.
Con le mani grandi e scure, mio padre ha scostato un poco la terra e ha raccolto le verdure, tirandole su piano piano, in modo che non si strappassero. Le ha sciacquate sotto l’acqua corrente, accarezzandole con il dito per pulirle bene e me le ha affettate in una ciotolina di vetro, cospargendole sale, olio e semi di giggiulena tostata.
L’immagine che illustra il racconto è tratta da The British warblers. London,R.H. Porter et al.[1907-1914]